En el 2023 la Sede Central de la Società Dante Alighieri promovió la Consulta lingua-mondo, un espacio cultural para autores extranjeros que escriben en italiano. El proyecto se inspira a los valores de encuentro y de italsimpatia, propios de la Asociación.
El Círculo literario del Comitato de Guatemala comparte las finalidades de la Consulta y propone a los lectores de La Gazzetta un texto de Alejandro Cordón, escritor guatemalteco que desde el 2007 vive en Turín, donde trabaja como redactor técnico. El Círculo desea a Alejandro mucho éxito en la novela y otros textos que tiene listos para su publicación.
L'ESTATE HA IL PROFUMO DI MIA MADRE
Alejandro Cordón
Alejandro Cordón nasce nel 1984 a Las Delicias, un piccolo villaggio del Guatemala. Figlio di padre emigrante negli Stati Uniti, Alejandro cresce con la madre e la nonna. Nel 2001 si trasferisce a Città del Guatemala dove si appassiona di italiano e letteratura. Dal 2007 vive a Torino dove esercita la professione di redattore tecnico.
Avevo tre anni al momento della repentina partenza di mia madre; l’ho rivista a pochi mesi dal mio ottavo compleanno.
In quegli anni di distanza, alimentavamo il nostro amore con lunghe videochiamate in casa dei nonni materni, dove parlare di lei non sembrava vietato, come invece accadeva da quelli paterni.
Mio padre mi diceva che l’avremmo raggiunta. Ai miei Quando? lui rispondeva sempre Presto. Forse sperava che io la dimenticassi. Non ho mai smesso di chiedere Quando?
Dopo oltre venti ore di viaggio, finalmente quel quando arrivò. Era là, in fondo al corridoio, dietro le porte automatiche che non me la concedevano ancora del tutto. La sua bellezza non era neppure lontanamente paragonabile alla sua immagine pixellata e ai miei ricordi sbiaditi. Indossava una blusa fucsia che non copriva gran parte del suo seno traboccante, i capelli finto biondo raccolti sulla testa da un grosso artiglio, le braccia incrociate sul petto, in equilibrio sui sandali con la zeppa, attendeva coraggiosa col mento in alto.
“¡Mi hombre hermoso!” urlò appena mi vide, anticipando il mio ¡Mamá! incastrato fra il petto e la gola. Si abbassò alla mia altezza e io corsi fino a schiantarmi nel suo abbraccio morbido, nel suo odore fresco come il limone, avvolgente come il cocco. Piansi. Mio padre insisteva che gli uomini non dovessero piangere e io ero sempre stato bravo a trattenermi, ma era impossibile soffocare un pianto non preannunciato.
I motivi della sua partenza non mi sono tuttora chiari e conoscerli non cambierà di certo nulla. So che mio nonno, per proteggerla, l’aveva mandata da mio zio partito per Torino anni prima. So che quando le chiedevo di ritornare diventava muta e triste.
Ricordo che a Torino avevo sentito lei e mio padre litigare sottovoce in cucina. Convinti che io dormissi, bisbigliavano di chi fosse la colpa, rimbalzandosela addosso come la pallina in una partita di pingpong.
“E va bene, è tutta colpa mia!” aveva detto mia madre. “Ma dimmi solo una cosa, ¡grandisímo hijo de puta! ¿Qué culpa tiene el niño che l’hai tenuto lontano da me tutti ‘sti anni?” aveva sibilato infine.
Incastrati fra i bagagli nella piccola macchina di mio zio, partimmo per casa sua dove ci aspettavano suo marito e altri loro amici, barbuti e nasuti: los italianos. Lo zio ordinò un’intera pizza per ognuno: la mia era piena di salame, come quelle delle Tartarughe Ninja. Mangiai seduto sulle gambe di mia madre, mentre guardavo indifferente mio padre, silenzioso e in disparte.
Di quell’estate ricordo i giorni passati a esplorare Torino nella calma, quando gli altri si riparavano dal sole che noi eravamo abituati a ricevere sulla pelle. Parchi, palazzi e chiese sembravano solo nostri. Talmente nostri che una aveva addirittura il nome di mia mamma: Cristina.
Ricordo le lunghe camminate accanto al fiume dove io correvo, saltavo e mi arrampicavo sugli alberi come una scimmia, cercando le sue attenzioni; mi allontanavo e fingevo di non essere vincolato a lei, la stella del mio sistema solare. Ma non appena mi giravo, la scoprivo a guardarmi raggiante, completa.
Ricordo tutti quei gelati dopo cena e la voglia di allungare le notti quando finalmente rimanevamo da soli, a parlare finché il sonno non ci catturava. Noi dormivamo in camera, mio padre, invece, nel salotto di quella piccola casa che lei aveva affittato per quei due mesi. Lei abitava dalla signora anziana a cui faceva da badante, quella che mi aveva chiuso in mano una banconota da venti euro spiegazzata appena ci eravamo conosciuti.
Ricordo i viaggi in macchina con lo zio e suo marito. Loro davanti, a chiacchierare e gesticolare; mia mamma e io dietro, appiccicati e ammutoliti dalla bellezza del paesaggio. Avevamo visitato tanti posti diversi, persino una chiesa costruita in cima a una montagna di pietra. In quelle gite mio padre rimaneva a casa, invece che inseguirci come un fantasma.
Ricordo quando io e mia mamma facevamo la doccia insieme, quando la aiutavo a pulire e a cucinare. Quando in mancanza di coriandolo, lime o avocado per una nuova ricetta italo-guatemalteca, lei mi lasciava andare da solo al supermercato sotto casa, scalzo come se girassi nel nostro villaggio lontano. Quando i cassieri ridevano stupiti, io gli spiegavo che da me era normale, e nel tentativo di tradurre il mio spagnolo, elencavo le parole italiane che avevo imparato: chau, gratsie, uno-due- tre-cuatro-chincue, bonllorno e bonanote, per farli divertire.
L’estate più bella della mia esistenza finì col sapore della nausea e i lunghi silenzi di una nuova separazione. Durante il nostro ultimo, lungo, abbraccio, ci ripetevamo le promesse dei nostri futuri incontri, mentre accarezzavo il suo petto, lì, dove faceva male anche a me.
“È ora, Julio” disse mio padre. Il mio nome era il massimo degli imperativi. Volevo che mi lasciasse in pace, che continuasse a fare il fantasma. Piansi mostrandogli la mia debolezza, mentre il groviglio di quel che provavo in quel momento si trasformava in una rabbia solida verso di lui, verso il suo egoismo: “perché il figlio maschio sta col padre”.
Dopo quell’estate, avrei trascorso altri bei periodi con mia mamma; interrotti, come la sua immagine dietro la porta dell’aeroporto. Ma già nel nostro incontro successivo, l’innocenza del mio io bambino mi avrebbe abbandonato e sarebbe stato impossibile fare la doccia insieme o accarezzare il suo seno.
I nostri incontri non avrebbero più avuto né i profumi né i sapori di quell’estate, né tantomeno avrei guardato di nuovo il mondo protetto nel suo abbraccio, come nei primi anni della mia vita, quando io e lei eravamo davvero una cosa sola.
En el 2023 la Sede Central de la Società Dante Alighieri promovió la Consulta lingua-mondo, un espacio cultural para autores extranjeros que escriben en italiano. El proyecto se inspira a los valores de encuentro y de italsimpatia, propios de la Asociación.
El Círculo literario del Comitato de Guatemala comparte las finalidades de la Consulta y propone a los lectores de La Gazzetta un texto de Alejandro Cordón, escritor guatemalteco que desde el 2007 vive en Turín, donde trabaja como redactor técnico. El Círculo desea a Alejandro mucho éxito en la novela y otros textos que tiene listos para su publicación.
L'ESTATE HA IL PROFUMO DI MIA MADRE
Alejandro Cordón
Alejandro Cordón nasce nel 1984 a Las Delicias, un piccolo villaggio del Guatemala. Figlio di padre emigrante negli Stati Uniti, Alejandro cresce con la madre e la nonna. Nel 2001 si trasferisce a Città del Guatemala dove si appassiona di italiano e letteratura. Dal 2007 vive a Torino dove esercita la professione di redattore tecnico.
Avevo tre anni al momento della repentina partenza di mia madre; l’ho rivista a pochi mesi dal mio ottavo compleanno.
In quegli anni di distanza, alimentavamo il nostro amore con lunghe videochiamate in casa dei nonni materni, dove parlare di lei non sembrava vietato, come invece accadeva da quelli paterni.
Mio padre mi diceva che l’avremmo raggiunta. Ai miei Quando? lui rispondeva sempre Presto. Forse sperava che io la dimenticassi. Non ho mai smesso di chiedere Quando?
Dopo oltre venti ore di viaggio, finalmente quel quando arrivò. Era là, in fondo al corridoio, dietro le porte automatiche che non me la concedevano ancora del tutto. La sua bellezza non era neppure lontanamente paragonabile alla sua immagine pixellata e ai miei ricordi sbiaditi. Indossava una blusa fucsia che non copriva gran parte del suo seno traboccante, i capelli finto biondo raccolti sulla testa da un grosso artiglio, le braccia incrociate sul petto, in equilibrio sui sandali con la zeppa, attendeva coraggiosa col mento in alto.
“¡Mi hombre hermoso!” urlò appena mi vide, anticipando il mio ¡Mamá! incastrato fra il petto e la gola. Si abbassò alla mia altezza e io corsi fino a schiantarmi nel suo abbraccio morbido, nel suo odore fresco come il limone, avvolgente come il cocco. Piansi. Mio padre insisteva che gli uomini non dovessero piangere e io ero sempre stato bravo a trattenermi, ma era impossibile soffocare un pianto non preannunciato.
I motivi della sua partenza non mi sono tuttora chiari e conoscerli non cambierà di certo nulla. So che mio nonno, per proteggerla, l’aveva mandata da mio zio partito per Torino anni prima. So che quando le chiedevo di ritornare diventava muta e triste.
Ricordo che a Torino avevo sentito lei e mio padre litigare sottovoce in cucina. Convinti che io dormissi, bisbigliavano di chi fosse la colpa, rimbalzandosela addosso come la pallina in una partita di pingpong.
“E va bene, è tutta colpa mia!” aveva detto mia madre. “Ma dimmi solo una cosa, ¡grandisímo hijo de puta! ¿Qué culpa tiene el niño che l’hai tenuto lontano da me tutti ‘sti anni?” aveva sibilato infine.
Incastrati fra i bagagli nella piccola macchina di mio zio, partimmo per casa sua dove ci aspettavano suo marito e altri loro amici, barbuti e nasuti: los italianos. Lo zio ordinò un’intera pizza per ognuno: la mia era piena di salame, come quelle delle Tartarughe Ninja. Mangiai seduto sulle gambe di mia madre, mentre guardavo indifferente mio padre, silenzioso e in disparte.
Di quell’estate ricordo i giorni passati a esplorare Torino nella calma, quando gli altri si riparavano dal sole che noi eravamo abituati a ricevere sulla pelle. Parchi, palazzi e chiese sembravano solo nostri. Talmente nostri che una aveva addirittura il nome di mia mamma: Cristina.
Ricordo le lunghe camminate accanto al fiume dove io correvo, saltavo e mi arrampicavo sugli alberi come una scimmia, cercando le sue attenzioni; mi allontanavo e fingevo di non essere vincolato a lei, la stella del mio sistema solare. Ma non appena mi giravo, la scoprivo a guardarmi raggiante, completa.
Ricordo tutti quei gelati dopo cena e la voglia di allungare le notti quando finalmente rimanevamo da soli, a parlare finché il sonno non ci catturava. Noi dormivamo in camera, mio padre, invece, nel salotto di quella piccola casa che lei aveva affittato per quei due mesi. Lei abitava dalla signora anziana a cui faceva da badante, quella che mi aveva chiuso in mano una banconota da venti euro spiegazzata appena ci eravamo conosciuti.
Ricordo i viaggi in macchina con lo zio e suo marito. Loro davanti, a chiacchierare e gesticolare; mia mamma e io dietro, appiccicati e ammutoliti dalla bellezza del paesaggio. Avevamo visitato tanti posti diversi, persino una chiesa costruita in cima a una montagna di pietra. In quelle gite mio padre rimaneva a casa, invece che inseguirci come un fantasma.
Ricordo quando io e mia mamma facevamo la doccia insieme, quando la aiutavo a pulire e a cucinare. Quando in mancanza di coriandolo, lime o avocado per una nuova ricetta italo-guatemalteca, lei mi lasciava andare da solo al supermercato sotto casa, scalzo come se girassi nel nostro villaggio lontano. Quando i cassieri ridevano stupiti, io gli spiegavo che da me era normale, e nel tentativo di tradurre il mio spagnolo, elencavo le parole italiane che avevo imparato: chau, gratsie, uno-due- tre-cuatro-chincue, bonllorno e bonanote, per farli divertire.
L’estate più bella della mia esistenza finì col sapore della nausea e i lunghi silenzi di una nuova separazione. Durante il nostro ultimo, lungo, abbraccio, ci ripetevamo le promesse dei nostri futuri incontri, mentre accarezzavo il suo petto, lì, dove faceva male anche a me.
“È ora, Julio” disse mio padre. Il mio nome era il massimo degli imperativi. Volevo che mi lasciasse in pace, che continuasse a fare il fantasma. Piansi mostrandogli la mia debolezza, mentre il groviglio di quel che provavo in quel momento si trasformava in una rabbia solida verso di lui, verso il suo egoismo: “perché il figlio maschio sta col padre”.
Dopo quell’estate, avrei trascorso altri bei periodi con mia mamma; interrotti, come la sua immagine dietro la porta dell’aeroporto. Ma già nel nostro incontro successivo, l’innocenza del mio io bambino mi avrebbe abbandonato e sarebbe stato impossibile fare la doccia insieme o accarezzare il suo seno.
I nostri incontri non avrebbero più avuto né i profumi né i sapori di quell’estate, né tantomeno avrei guardato di nuovo il mondo protetto nel suo abbraccio, come nei primi anni della mia vita, quando io e lei eravamo davvero una cosa sola.