Marino Cattelan è un fotografo e scrittore italiano originario di Vicenza (1957), residente in Guatemala da oltre trent’anni. La sua opera esplora la vita, la spiritualità e la dignità del popolo guatemalteco, che ritrae con profonda sensibilità e rispetto. In questa occasione si presenta il testo “Alejandro Xepatán”, per essere letto e apprezzato come testimonianza del suo sguardo umano e poetico sulla realtà del paese che ha scelto come propria casa.
Da Dove iniziare? Non è facile dipingere don Alejandro del villaggio di Xepatan, Patzún. A volte l’anima perde colpi e non trova parole. L’ arte nasce dalla stessa anima e deve essere sempre viva. Un applauso eterno dovrei dare a questo essere silenzioso e cieco da vent’anni. Il primo occhio perso mentre spaccava la legna con l’ascia, l’altro sicuramente un lento glaucoma. Le parole non bastano, bisognerebbe fermarsi a contemplare i suoi movimenti sicuri, il suo pensiero che va più in là del reale. I lunghi silenzi mi inquietano perché lui vede molto più in là di me. A volte mi da l’impressione che sta dormendo. La bellezza è che è molto più sereno e felice di me.
Mi invita a vedere con la sua intuizione ma non ce la faccio a seguirlo, io mi limito a vedere solo quello che vedono i miei occhi.
Percorre dei sentieri a me sconosciuti: impossibile accompagnarlo.
Oggi è Venerdì Santo e mi arriva un messaggio: don Marino mi tio Alejandro fallecio’.... Mio Alessandro è morto. Che coincidenza….
Mi sto preparando per andare a vedere la deposizione di Cristo dalla croce nel paese di Patzicía, lo metteranno in una urna di vetro e lo porteranno per le vie della cittadina. Sarà il corpo esile e muto di Alejandro in giro per il paese mostrando a tutti le sue piaghe e i suoi occhi chiusi, ma nessuno vedrà le sue spine, solo io ho avuto il privilegio di toccare con mano le sue ferite quando mi raccontava la sua infanzia dolorosa nella Finca di San Antonio Panimaquin dove i suoi piedi di bambino avevano fatto un callo duro come fosse una suola. Suo padre era sempre ubriaco e quando stava bene passava il tempo con altre donne. “Non mi ha mai voluto bene” aggiunge con un filo di voce, dopo settant’anni passati su queste montagne posso aggiungere che mio padre aveva perso la mente, io no.
Mentre osservo nell’ interno della chiesa di Patzicia un gruppo di uomini vestiti di bianco con un foulard legato alla testa scendere il corpo della statua di Gesù con una rossa ferita al costato di legno, il mio pensiero ritorna ad Alejandro. Hanno appoggiato dietro la grande croce due scale di legno e due giovani salgono con devozione togliendo la corona di spine in metallo, passandola ad altri due uomini che la ricevano in un tessuto bianco, senza toccarla con le mani.
Alejandro anche a te oggi hanno tolto la corona di spine e hai finito di sentire il dolore di questa effimera esistenza. Il tuo corpo si è rilassato. Anche tua moglie, ancora giovane, credo si sia rilassata, perché’ quando bevevi troppo la picchiavi fuori controllo, per questo si é separata da te da anni e ti ha lasciato vivere da solo anche se totalmente cieco. La corona di spine la continuano a portare i tuoi figli, ma ormai sono grandi e sentiranno meno il dolore. Io che ti ho conosciuto pochi mesi fa posso solo dirti riposa. Non ti ho conosciuto violento ma docile, visionario e coraggioso. Quando mi hai raccontato che ogni giorno andavi a lavorare suoi tuoi campi a una ora e mezza a piedi da Xepatan scendendo nella valle in direzione di Pochuta con un bastone per mano toccando ogni ostacolo fino ad arrivare al tuo terreno dove avevi messo delle bottiglie vuote di plastica appese ai rami degli alberi, affinché con l’aria emettessero un suono e così non dovevi andare oltre. Grande il tuo ingegno!
Quando mi raccontavi che di giorno mentre ti scaldi il caffè con la legna ti metti a cantare ad alta voce, e i vicini ti credono matto... lo faccio per farmi compagnia e continuare a vivere aggiungi, è una forma per iniziare a leccarmi le ferite.
Ricordi quando ti ho comperato una pomata per metterla nella mano dove avevi una grande piaga provocata dall’ acqua bollente che avevi calcolata male la distanza da versare nella tazza per il caffè.
Ti ricordi quando sono venuto a prenderti e ti stavi lavando in una bacinella di plastica con i piedi nel fango del pavimento della tua stanza. Cercavi con le mani l’asciugamano nella corda, ma era caduto per terra e non lo trovavi. Ti muovevi nudo appoggiando i ginocchi per terra e non trovavi l’asciugamano e ti ho aiutato asciugandoti raccogliendo l’asciugamano che per fortuna era ancora pulito.
Quando venivi ad aiutarmi nel mio terreno di Tecpán e ti avvolgevi le ginocchia con degli stracci per non bagnarti le ginocchia tra l’erba alta e bagnata, con le mani toglievi le erbacce ed ogni tanto mi fermavo a guardarti le mani incallite bagnate di pioggia e di terra quando strappavi un fiore selvatico color arancio: un contrasto tremendo.
Quando ti ho fatto conoscere la casa in modo che avessi uno schema mentale chiaro e ti potevi muovere senza esserti sempre a fianco. E quando mi hai fatto la proposta di essere tu il mio guardiano e lavoratore, aggiungendo, basta tirare dei fili in tutte le direzioni del terreno e così posso fare tutto.
Dopo due giorni passati solo con te, ritornavo a casa e facevo una grande fatica a trattare con le persone che ci vedono: il cieco sembravo io.
Ricordi quando riposavi nel letto a fianco al mio e non sapevo se dormivi, o se eri morto, non sentivo il tuo respiro, eri come fossilizzato con gli occhi chiusi e lontano. Il silenzio era la tua arma di saggezza. Mi piaceva quando ti burlavi di te stessi dicendo: occhio arriva il cieco…e sorridevi. Era diventata la tua filosofia della vita: una genialità umana.
Una volta sei venuto da me quando il guardiano aveva con se moglie e figli, parlavate lo stesso idioma maya di Patzún, una volta entrato nella sala mi hai chiesto se la moglie del guardiano fosse grassa. Dalla voce ti sei accorto che veramente è abbastanza grassa e ti guardo stupito.
Osservo i tuoi piedi nudi e screziati, uguali a quelli del Cristo che stanno togliendo dalla croce e con un dolce dondolio in quattro uomini lo avvicinano alla statua della Vergine Dolorosa.
Tu non hai bisogno di essere dondolato di fronte a tua moglie….
Ma i tuoi piedi sono veri e caldi, scalzi come quando da bambino camminavi sulla terra vulcanica della Finca a sud del lago di Atitlán. Ti ricordi Alejandro quando mi hai chiesto di tagliarti la barba perché non vedendo è molto difficile, in realtà non sapevo come appoggiare la forbice sulla tua pelle, avevo le mani che tremavano, non volevo procurarti ulteriori ferite. Anche se i peli bianchi erano pochi e lunghi non riuscivo a tagliarla bene. Ogni tanto con la mano ti toccavi il volto e mi dicevi: taglia ancora un poco.
Il Cristo della chiesa l’hanno appoggiato per terra sopra un materasso nero di velluto. La gente per ben due ore faranno la fila per inginocchiarsi e baciare i piedi del Cristo di legno che ha una statura umana.
Nessuno ti ha baciato i tuoi piedi caro Alejandro, neanche tua moglie dopo morto immagino. Sei uscito di scena in silenzio e solo nella tua umile stanza con lamiere arrugginite sopra e terra per pavimento. Hai lottato tutta la vita con i tuoi demoni nei tuoi sessantanove anni che hai vissuto con tanta speranza, ma alla fine la speranza ha perso la corsa.
Ricordi quando ti ho detto che bella camicia azzurra ti sei messo oggi e mi hai risposto con calma, io le prendo e le metto, non so che colore hanno......
Tocca a me baciare i piedi del Cristo, in realtà ho sentito che baciavo i tuoi, quando mi hai insegnato a vedere più in là di quello che abitualmente vediamo. In questo attimo di sacro silenzio ho trovato me stesso in mezzo al caos che è diventato il mondo. Io continuo a vivere che è la cosa più difficile al mondo, solo esistere sarebbe una follia.
Sfioravo con le labbra le orme delle tue cicatrici, alcune già guarite, altre ancora fresche. Ti soffio nelle ali così il tuo volo sarà più leggero: con te ho fatto il viaggio dell’anima.
Le parole di Alejandro possono essere pietre, frecce o fiori profumati che ti entrano senza accorgertene perché’ nuotiamo in un oceano di parole per tutta la vita.
Ti ricordi quando dopo un lungo silenzio mi hai chiesto perché’ siamo qui?
E piano hai aggiunto. sono sicuro che non è per stare bene, divertirci e godere la vita.
Marino Cattelan è un fotografo e scrittore italiano originario di Vicenza (1957), residente in Guatemala da oltre trent’anni. La sua opera esplora la vita, la spiritualità e la dignità del popolo guatemalteco, che ritrae con profonda sensibilità e rispetto. In questa occasione si presenta il testo “Alejandro Xepatán”, per essere letto e apprezzato come testimonianza del suo sguardo umano e poetico sulla realtà del paese che ha scelto come propria casa.
Da Dove iniziare? Non è facile dipingere don Alejandro del villaggio di Xepatan, Patzún. A volte l’anima perde colpi e non trova parole. L’ arte nasce dalla stessa anima e deve essere sempre viva. Un applauso eterno dovrei dare a questo essere silenzioso e cieco da vent’anni. Il primo occhio perso mentre spaccava la legna con l’ascia, l’altro sicuramente un lento glaucoma. Le parole non bastano, bisognerebbe fermarsi a contemplare i suoi movimenti sicuri, il suo pensiero che va più in là del reale. I lunghi silenzi mi inquietano perché lui vede molto più in là di me. A volte mi da l’impressione che sta dormendo. La bellezza è che è molto più sereno e felice di me.
Mi invita a vedere con la sua intuizione ma non ce la faccio a seguirlo, io mi limito a vedere solo quello che vedono i miei occhi.
Percorre dei sentieri a me sconosciuti: impossibile accompagnarlo.
Oggi è Venerdì Santo e mi arriva un messaggio: don Marino mi tio Alejandro fallecio’.... Mio Alessandro è morto. Che coincidenza….
Mi sto preparando per andare a vedere la deposizione di Cristo dalla croce nel paese di Patzicía, lo metteranno in una urna di vetro e lo porteranno per le vie della cittadina. Sarà il corpo esile e muto di Alejandro in giro per il paese mostrando a tutti le sue piaghe e i suoi occhi chiusi, ma nessuno vedrà le sue spine, solo io ho avuto il privilegio di toccare con mano le sue ferite quando mi raccontava la sua infanzia dolorosa nella Finca di San Antonio Panimaquin dove i suoi piedi di bambino avevano fatto un callo duro come fosse una suola. Suo padre era sempre ubriaco e quando stava bene passava il tempo con altre donne. “Non mi ha mai voluto bene” aggiunge con un filo di voce, dopo settant’anni passati su queste montagne posso aggiungere che mio padre aveva perso la mente, io no.
Mentre osservo nell’ interno della chiesa di Patzicia un gruppo di uomini vestiti di bianco con un foulard legato alla testa scendere il corpo della statua di Gesù con una rossa ferita al costato di legno, il mio pensiero ritorna ad Alejandro. Hanno appoggiato dietro la grande croce due scale di legno e due giovani salgono con devozione togliendo la corona di spine in metallo, passandola ad altri due uomini che la ricevano in un tessuto bianco, senza toccarla con le mani.
Alejandro anche a te oggi hanno tolto la corona di spine e hai finito di sentire il dolore di questa effimera esistenza. Il tuo corpo si è rilassato. Anche tua moglie, ancora giovane, credo si sia rilassata, perché’ quando bevevi troppo la picchiavi fuori controllo, per questo si é separata da te da anni e ti ha lasciato vivere da solo anche se totalmente cieco. La corona di spine la continuano a portare i tuoi figli, ma ormai sono grandi e sentiranno meno il dolore. Io che ti ho conosciuto pochi mesi fa posso solo dirti riposa. Non ti ho conosciuto violento ma docile, visionario e coraggioso. Quando mi hai raccontato che ogni giorno andavi a lavorare suoi tuoi campi a una ora e mezza a piedi da Xepatan scendendo nella valle in direzione di Pochuta con un bastone per mano toccando ogni ostacolo fino ad arrivare al tuo terreno dove avevi messo delle bottiglie vuote di plastica appese ai rami degli alberi, affinché con l’aria emettessero un suono e così non dovevi andare oltre. Grande il tuo ingegno!
Quando mi raccontavi che di giorno mentre ti scaldi il caffè con la legna ti metti a cantare ad alta voce, e i vicini ti credono matto... lo faccio per farmi compagnia e continuare a vivere aggiungi, è una forma per iniziare a leccarmi le ferite.
Ricordi quando ti ho comperato una pomata per metterla nella mano dove avevi una grande piaga provocata dall’ acqua bollente che avevi calcolata male la distanza da versare nella tazza per il caffè.
Ti ricordi quando sono venuto a prenderti e ti stavi lavando in una bacinella di plastica con i piedi nel fango del pavimento della tua stanza. Cercavi con le mani l’asciugamano nella corda, ma era caduto per terra e non lo trovavi. Ti muovevi nudo appoggiando i ginocchi per terra e non trovavi l’asciugamano e ti ho aiutato asciugandoti raccogliendo l’asciugamano che per fortuna era ancora pulito.
Quando venivi ad aiutarmi nel mio terreno di Tecpán e ti avvolgevi le ginocchia con degli stracci per non bagnarti le ginocchia tra l’erba alta e bagnata, con le mani toglievi le erbacce ed ogni tanto mi fermavo a guardarti le mani incallite bagnate di pioggia e di terra quando strappavi un fiore selvatico color arancio: un contrasto tremendo.
Quando ti ho fatto conoscere la casa in modo che avessi uno schema mentale chiaro e ti potevi muovere senza esserti sempre a fianco. E quando mi hai fatto la proposta di essere tu il mio guardiano e lavoratore, aggiungendo, basta tirare dei fili in tutte le direzioni del terreno e così posso fare tutto.
Dopo due giorni passati solo con te, ritornavo a casa e facevo una grande fatica a trattare con le persone che ci vedono: il cieco sembravo io.
Ricordi quando riposavi nel letto a fianco al mio e non sapevo se dormivi, o se eri morto, non sentivo il tuo respiro, eri come fossilizzato con gli occhi chiusi e lontano. Il silenzio era la tua arma di saggezza. Mi piaceva quando ti burlavi di te stessi dicendo: occhio arriva il cieco…e sorridevi. Era diventata la tua filosofia della vita: una genialità umana.
Una volta sei venuto da me quando il guardiano aveva con se moglie e figli, parlavate lo stesso idioma maya di Patzún, una volta entrato nella sala mi hai chiesto se la moglie del guardiano fosse grassa. Dalla voce ti sei accorto che veramente è abbastanza grassa e ti guardo stupito.
Osservo i tuoi piedi nudi e screziati, uguali a quelli del Cristo che stanno togliendo dalla croce e con un dolce dondolio in quattro uomini lo avvicinano alla statua della Vergine Dolorosa.
Tu non hai bisogno di essere dondolato di fronte a tua moglie….
Ma i tuoi piedi sono veri e caldi, scalzi come quando da bambino camminavi sulla terra vulcanica della Finca a sud del lago di Atitlán. Ti ricordi Alejandro quando mi hai chiesto di tagliarti la barba perché non vedendo è molto difficile, in realtà non sapevo come appoggiare la forbice sulla tua pelle, avevo le mani che tremavano, non volevo procurarti ulteriori ferite. Anche se i peli bianchi erano pochi e lunghi non riuscivo a tagliarla bene. Ogni tanto con la mano ti toccavi il volto e mi dicevi: taglia ancora un poco.
Il Cristo della chiesa l’hanno appoggiato per terra sopra un materasso nero di velluto. La gente per ben due ore faranno la fila per inginocchiarsi e baciare i piedi del Cristo di legno che ha una statura umana.
Nessuno ti ha baciato i tuoi piedi caro Alejandro, neanche tua moglie dopo morto immagino. Sei uscito di scena in silenzio e solo nella tua umile stanza con lamiere arrugginite sopra e terra per pavimento. Hai lottato tutta la vita con i tuoi demoni nei tuoi sessantanove anni che hai vissuto con tanta speranza, ma alla fine la speranza ha perso la corsa.
Ricordi quando ti ho detto che bella camicia azzurra ti sei messo oggi e mi hai risposto con calma, io le prendo e le metto, non so che colore hanno......
Tocca a me baciare i piedi del Cristo, in realtà ho sentito che baciavo i tuoi, quando mi hai insegnato a vedere più in là di quello che abitualmente vediamo. In questo attimo di sacro silenzio ho trovato me stesso in mezzo al caos che è diventato il mondo. Io continuo a vivere che è la cosa più difficile al mondo, solo esistere sarebbe una follia.
Sfioravo con le labbra le orme delle tue cicatrici, alcune già guarite, altre ancora fresche. Ti soffio nelle ali così il tuo volo sarà più leggero: con te ho fatto il viaggio dell’anima.
Le parole di Alejandro possono essere pietre, frecce o fiori profumati che ti entrano senza accorgertene perché’ nuotiamo in un oceano di parole per tutta la vita.
Ti ricordi quando dopo un lungo silenzio mi hai chiesto perché’ siamo qui?
E piano hai aggiunto. sono sicuro che non è per stare bene, divertirci e godere la vita.